
Una
delle metamorfosi, perlomeno estetiche e formali, più
temerarie della geopolitica degli ultimi tempi riguarda Ahmad al Sharaa, attuale
leader e presidente ad interim della Siria post Asad. Nato qaedista e vissuto
come jihadista col nome di Mohammad al Jolani fino alla definitiva presa di Damasco
d’un anno fa, dopo poche settimane dall’iniziale gestione del potere per “il rilancio
della Siria” ha dismesso la mimetica per una più rassicurante mise istituzionale
che gli conferisce l’apparenza statista. Unico retaggio del passato l’ostentazione
d’una folta barba, simbolo maschile di fedeltà alla Sunna e al profeta. Alcuni
analisti che ne hanno esaminato l’ambiziosa scalata nella politica locale sin
da quando praticava i primi spari da miliziano islamista, lo dipingono più
adatto all’azione che alla teoria. Ma il suo sponsor geopolitico residente ad
Ankara, prevalentemente il Millî İstihbarat Teşkilâtı, l’Intelligence del potente vicino, interessata ai sommovimenti
siriani del 2011 e coinvolta nella successiva guerra civile siriana, ha esaminato
e promosso l’evoluzione del nucleo con cui l’allora al Jolani gestiva un’enclave
diventata vitale per la corsa verso Damasco: la cittadella di Idlib. Passata
dal controllo ribelle del Fronte al Nusra e Ahrar al Sham di cui
il governo Erdoğan
era finanziatore, alla riconquista dei lealisti di Asad e ai bombardamenti
dell’aviazione russa che sosteneva il regime. Poi nel 2017 l’area venne ripresa
da Hayat Tahrir al Sham di cui al Jolani era l’esponente di spicco. Note
turche diffuse dopo la stabilizzazione dei rapporti con al Sharaa rivelano che inizialmente
il Mit non aveva puntato con certezza su di lui, però gli islamisti rivali
avevano subìto troppi intoppi e fallimenti proprio nello “staterello” di Idlib e
nella gestione del passo montano di Bab al Hawa, a neppure cinque chilometri
dalla frontiera turca, luogo di transito degli aiuti umanitari delle Nazioni
Unite.

I Servizi turchi osservavano e valutavano, e la
gestione di amministratore di al Jolani appariva la più efficace rispetto ai
jihadisti foraggiati da Ankara. Chi oggi, pur a mezza bocca, ne parla evidenzia
un gioco delle parti: lo stesso al Jolani dalla sua Idlib mostrava segni d’intesa
verso chi fino al quel momento gli preferiva altri soggetti. Nel suo piano che,
possiamo ipotizzare, mirasse a un posto di totale rappresentanza della
ribellione anti Asad, Jolani cercava d’avvantaggiarsi strizzando l’occhio ad
Ankara com’essa studiava la convenienza cambiando in corsa le sue preferenze. Non
è dato sapere se lo sdoganamento del leader di HTS sia partito dalla
mente che gestiva per Ankara il dossier siriano, Hakan Fidan. Certo è che
quando quest’ultimo è stato proposto dal suo mentore al ministero degli Esteri
(il 2 giugno 2023) il successo dei ribelli non era scontato, ma la fisionomia
del conflitto era segnata dal locale disimpegno russo che da sedici mesi concentravano
sul fronte ucraino ogni armamento di terra e d’aria. Probabilmente la scelta
fra Turchia e gruppo Jolani è avvenuta in contemporanea e ognuna delle parti ha
valutato vantaggi e bontà del rapporto. Detto col senno del poi il jihadista
trasformato in traghettatore del futuro di Damasco sta piacendo a un pezzo del
panorama diplomatico che osserva quel cuore squassato del Medioriente ch’era
diventata la Siria. E pure chi come l’Unione Europea sta da anni concentrando attenzione
e impegno bellico-economico sul versante ucraino, non disdegna prossime commesse
di ricostruzione magari varando joint-venture con aziende turche. L’unico irritato
è Israele perché si trova la Turchia a contatto di gomito, tantoché ha provato
a riportare l’instabilità sul territorio siriano ampliando le sue occupazioni
oltre il Golan, foraggiando il malcontento fra la minoranza drusa; quella
alawita, pur scontenta del nuovo corso, è refrattaria a “protezioni” sioniste.

Eppure fra una geopolitica
applicata agli
interessi regionali e i sottili percorsi ideologici che caratterizzavano la
galassia del fondamentalismo islamico che per anni ha combattuto, s’è alleata e
poi s’è divisa nel gran caos dei vari campi di battaglia siriani, il gioco più
variegato, rischioso, azzardato l’ha condotto lo Stato turco. Oggi il suo ruolo
politico internazionale appare ulteriormente rafforzato, ovunque. Davanti ai
risolutori-impostori come Trump e Putin gestori di conflitti e tregue all’apparenza
impossibili, quindi nei territori piegati e piagati da una scia sanguinaria com’era
la Siria dove Ankara s’è liberata di due avversari: il regime degli Asad e l’esperienza
del Rojava kurdo. E ancora attraverso la rottura del blocco jihadista che il
governo Erdoğan ha
utilizzato e selezionato. Scegliendo e promuovendo il “Signor metamorfosi” gestisce
il presente in maniera più scaltra e intrigante rispetto a quanto altri
contendenti regionali (Iran, Arabia Saudita, Qatar) hanno finora fatto tramite
soggettive campagne ideologico-militanti o consumistico-attrattive. E’ una giostra
nella quale il navigato premier, presidente e neo sultano turco è salito
volentieri convinto di poterla controllare a suo piacimento e divertimento. Gli
sviluppi gli stanno dando ragione, visto che gli intoppi maggiori alla sua
gestione politica li aveva riscontrati tutti all’interno col susseguirsi di
crisi finanziaria e un’inflazione stellare parzialmente rientrate per impulso
della produzione bellica immessa sul mercato mondiale (è il segno dei tempi e l’industria
tecnologica turca s’è adeguata) e l’attività di servizi in cui il turismo
brilla. Mentre il pericolo di un’opposizione montante è stato disinnescato con una
carezza riservata ai kurdi che archiviano la lotta armata del Pkk in cambio d’un riconoscimento delle proprie amministrazioni
nel nord-est anatolico. E il pugno di ferro della repressione giudiziaria scagliato
sugli esponenti del partito repubblicano, impossibilitati come accade a İmamoğlu
a riscendere nell’agone elettorale. Quest’aria da micro impero basata su
controllo, alleanze ed egemonia anziché conquiste dirette e dominio sembra
pagare e appagare pure i soci che Ankara ritiene sudditi.