venerdì 12 dicembre 2025

Pontedefero

 


Così lo chiamava Accattone che poco più su, ar ponte Bianco (Testaccio per i patiti di toponomastica), c’era morto. Era il set di Pasolini ma ricreava le storie dei tanti borgatari e ragazzetti di vita del secondo dopoguerra che sciamavano pel centro, magari trainando un carrettino di merce rubata. Così lo chiamano quei romani che restano, preferendolo al più ufficiale ponte dell’Industria, quando pure l’ex Rometta papalina diventata capitale, creava un’area operaia col Gazometro, progettato a inizi Novecento e costruito da Ansaldo nel 1935. Era la fase in cui Testaccio, dietro i cocci del monte, si faceva quartiere edificando cronologicamente il Mattatoio (1888), la centrale termoelettrica Montemartini (1919), i mercati generali ortofrutticoli (1921) e in varie ondate le abitazioni cooperative di muratori e carriolanti, quelle dell’Istituto Case Popolari fino agli edifici borghesi di via Marmorata. Da oggi il ponte de fero o dell’Industria diventa ponte san Francesco d’Assisi, per decisione comune comunal-governativa che fa piazzare nei pressi dei centotrenta metri del passaggio sul Tevere una statua bronzea dedicata al santo poverello, in una rotonda spartitraffico nient’affatto attrattiva. Innanzitutto povero davvero Francesco, che ti fanno respirare le autorità intervenute stamane a santificare la denominazione? Schierati per foto e servizi tivù: l’immancabile ministro alle Infrastrutture Salvini, il sottosegretario alla Sicurezza Mantovano, il sindaco Gualtieri, il cardinale Reina, il presidente delle celebrazioni dell’Ottavo centenario della morte di San Francesco (ah, ecco che s’intuisce la denominazione) Rondoni, l’amministratore delegato di Anas Gemme e pure il presidente di Anas Pecoraro. Riuniti anche a farsi benedire direttamente dal santo? Chissà… Forse Lui di statue e riferimenti non ne aveva bisogno, quella mastodontica a piazza San Giovanni in Laterano lo celebra dal 1927. Per tacere delle titolazioni che il patrono d’Italia annovera non solo nella toponomastica, ma nei luoghi che ne ricordano l’esempio d’indigenza: la Porziuncola a Santa Maria degli Angeli, la basilica d’Assisi e il sacro Spello. La meravigliosa Verna, lo straordinario Greccio. Peraltro una voce popolare, ripresa in un libro dallo scrittore Cesare de Simone, riferisce nei pressi del ponte una strage compiuta dalle SS naziste il 7 aprile del 1944: una decina di donne che avevano assaltato un forno nella Roma martoriata e affamata vennero allineate e fucilate su via del porto Fluviale. Dopo l’immensa strage delle Fosse Ardeatine avvenuta pochi giorni prima, nessuno trascrisse e descrisse quell’eccidio. Così passati nel tempo i testimoni diretti che avevano visto i cadaveri, quel massacro, come altri considerati minori, cadde nel dimenticatoio. Da alcuni anni lo rammenta una lapida fatta apporre dagli antifascisti romani. Se il ponte de fero fosse stato dedicato a Roma liberata dal nazifascismo anche san Francesco avrebbe sorriso e approvato. 


 

La Siria nelle mani

 


Il cammino della Siria futura, cui il presidente ad interim al Sharaa sta prestando il volto politico, vede una rincorsa senza esclusione di dollari e petrodollari fra le monarchie del Golfo, la Turchia e le stesse istituzioni mondiali. Ultimamente s’è addirittura mossa la Banca Mondiale che da più di quarant’anni, complice il regime degli Asad, non allungava un dollaro verso quel territorio. Ne fa giungere 150 milioni che potrebbero essere di più se sul Paese non gravasse tuttora il blocco sancito dalle sanzioni americane denominate César Act. Il gradimento della gestione al Sharaa in relazione agli investimenti di sceicchi amici di Trump potrebbe fungere da presupposto per la cancellazione di quell’ostacolo. Proprio il presidente siriano ha richiesto più investimenti che aiuti, evidentemente già pensa ai doveri di restituzione che i prestiti si trascinano dietro o forse perché è allettato dai capitali che hanno iniziato a circolare e trasformano il panorama. Su tutti troneggia il progetto qatarino da sette miliardi di dollari per una sfilza di centrali elettriche, a gas e solari (5mila megawatt) per ridare energia al Paese. Dietro c’è Urban Concession Contracting Holding, uno dei colossi mondiali di appaltatori d’energia che per il piano avviato a Deir El Zor, centoventi chilometri a sud-est di Raqqa, utilizza anche le aziende turche Cengiz e Kalyon, più la statunitense Power International. “Il lancio del progetto dovrebbe avere un impatto positivo sulla regione e sull'economia nazionale creando decine di migliaia di opportunità di lavoro dirette e indirette sia durante le fasi di costruzione che operative” sostiene il comunicato diffuso in questi giorni dalla holding qatarina, mentre il ministro siriano all’Energia Bashir, fotografato insieme ai manager che hanno posto la prima pietra, già sogna “l’avvìo di operazioni industriali, agricole e commerciali”. Dopo i primi mesi di assestamento politico, tuttora claudicante sul confine occidentale dove Israele bombarda e occupa, mentre resta incompiuto il reclutamento dei guerriglieri kurdi nelle file dell’esercito nazionale, Qatar e Arabia Saudita non stanno perdendo tempo sul terreno dei movimenti di denaro. Hanno allungato oltre cento milioni affinché al Sharaa appagasse il vuoto di retribuzione dei numerosi dipendenti pubblici, all’epoca degli Asad zoccolo duro dell’elettorato di regime. Fanno bella mostra di sé i succulenti appalti per ripristinare l’aeroporto della capitale (4 miliardi di dollari) con l’onnipresente Ucc Holding in prima fila, quindi altri due mega lavori: una metropolitana sempre a Damasco per due miliardi di dollari, più un altro miliardo per l’implementazione del porto di Tartous, che interessa anche alla marina russa, sono appannaggio dell’emiratina National Investment Corporation. Accanto agli affaroni per fare la Siria a immagine degli investitori occorre comunque acquietare talune carenze primarie. Sanare le necessità è il bisogno principe dell’attuale governo cui servono mano d’opera e tecnologia, visto che molti che la possedevano l’hanno portata con sé all’estero durante la guerra civile. Per un ritorno alla normalità il Paese dovrà riacquisire anche le competenze espatriate, ma per il possibile rientro a casa deve poterle occupare e pagare. Il cerchio è chiuso su sé stesso: serve denaro sonante per risollevare il Pil d’uno Stato fallito. Certo per l’immediato futuro la fiducia e le speranze sono un tutt’uno imprescindibile, però sul fronte della sovranità Damasco potrebbe conoscere una situazione simile al Libano del dopoguerra negli anni Novanta, quando sempre le petromonarchie tenevano in piedi l’economia d’un Paese stremato, influenzando e orientandone la leadership. Ora il fronte dei benefattori e imprenditori è più ampio: c’è pure la Turchia meno solvente degli sceicchi arabi ma politicamente rodata, motivata e agguerrita.


 

giovedì 11 dicembre 2025

La rinascita di Patrick

 


L'8 dicembre è nato nostro figlio, e in un attimo la mia memoria si è trasformata. Il giorno che portava il peso del passato è diventato un giorno di luce. È diventato insieme il giorno della libertà e il giorno della nascita. Come se il destino avesse voluto ricordarmi che anche la memoria può guarire quando entra in contatto con un nuovo amore, quando la vita si intreccia con il senso più profondo delle cose". Dice papà Patrick, mentre mamma Reny sorride mostrando orgogliosa Wedd, il frutto del loro amore. Il neonato porta quel nome che nella radice ha il termine anglosassone wed, unione, e i genitori felici rimandano all’affetto sincero che li lega e vuole segnare il viatico dell’erede. Zaki, ormai senior, nel comunicare l’evento sui social ha sottolineato come il pensiero di quella data, che segnava comunque il giorno della definitiva liberazione e dell’uscita dall’incubo della persecuzione subìta dal regime di al Sisi, vedeva nell’8 dicembre il macigno dell’esperienza detentiva. Un percorso faticoso e doloroso, perpetuato perfidamente dalle leggi egiziane. Pur non dimenticando tutto ciò, ora l’arrivo del figlio gli pone nuove prospettive. Che però l’attivista realizza a Bologna, di cui è diventato cittadino oltre che residente, non nell’Egitto che i governi dell’Unione Europea e dell’Italia considerano un “Paese sicuro” nonostante celi nelle proprie prigioni oltre sessantamila detenuti, in gran parte politici. Zaki ne sa qualcosa, poiché il suo tormento, fatto come per altri anche di privazioni e torture, è stato protratto nel tempo da reiterate carcerazioni e svariati processi. Sino allo sbroglio giudiziario sopravvenuto per ‘grazia presidenziale’ che gli ha cancellato una pena di tre anni di carcere inflittagli dalla Corte Suprema. L’accusa, come per altri attivisti attivi prevalentemente sui social della rete, consisteva in notizie considerate false, diffuse con articoli e post sul web. La clemenza rivolta alla persona rientra nell’operazione immagine che il golpista al Sisi fa di sé dopo un decennio di crudele repressione interna, peraltro tuttora incistata. Lo scorso settembre anche un altro detenuto-simbolo, Abdel Fattah al Sisi (nessuna parentela col suo persecutore), ha ricevuto la grazia dall’omonimo che guida lo Stato egiziano. Queste benevolenze rischiarano il presidente agli occhi internazionali, in virtù del ruolo affidatogli nelle trattative sulla sicurezza nell’area di Gaza. Lì Egitto e petromonarchie coprono smanie e manìe della coppia Trump-Netanyahu per disegnare una Striscia a proprio piacimento politico e affaristico. Il vile e servile compartecipe Sisi conquista uno strapuntino nel desco della futura gestione, ma non cambia registro verso chi vuol parlare e scrivere di diritti e libertà al Cairo e dintorni.

martedì 9 dicembre 2025

Metamorfosi geopolitiche

 


Una delle metamorfosi, perlomeno estetiche e formali, più temerarie della geopolitica degli ultimi tempi riguarda Ahmad al Sharaa, attuale leader e presidente ad interim della Siria post Asad. Nato qaedista e vissuto come jihadista col nome di Mohammad al Jolani fino alla definitiva presa di Damasco d’un anno fa, dopo poche settimane dall’iniziale gestione del potere per “il rilancio della Siria” ha dismesso la mimetica per una più rassicurante mise istituzionale che gli conferisce l’apparenza statista. Unico retaggio del passato l’ostentazione d’una folta barba, simbolo maschile di fedeltà alla Sunna e al profeta. Alcuni analisti che ne hanno esaminato l’ambiziosa scalata nella politica locale sin da quando praticava i primi spari da miliziano islamista, lo dipingono più adatto all’azione che alla teoria. Ma il suo sponsor geopolitico residente ad Ankara, prevalentemente il Millî İstihbarat Teşkilâtı, l’Intelligence del potente vicino, interessata ai sommovimenti siriani del 2011 e coinvolta nella successiva guerra civile siriana, ha esaminato e promosso l’evoluzione del nucleo con cui l’allora al Jolani gestiva un’enclave diventata vitale per la corsa verso Damasco: la cittadella di Idlib. Passata dal controllo ribelle del Fronte al Nusra e Ahrar al Sham di cui il governo Erdoğan era finanziatore, alla riconquista dei lealisti di Asad e ai bombardamenti dell’aviazione russa che sosteneva il regime. Poi nel 2017 l’area venne ripresa da Hayat Tahrir al Sham di cui al Jolani era l’esponente di spicco. Note turche diffuse dopo la stabilizzazione dei rapporti con al Sharaa rivelano che inizialmente il Mit non aveva puntato con certezza su di lui, però gli islamisti rivali avevano subìto troppi intoppi e fallimenti proprio nello “staterello” di Idlib e nella gestione del passo montano di Bab al Hawa, a neppure cinque chilometri dalla frontiera turca, luogo di transito degli aiuti umanitari delle Nazioni Unite. 

 

I Servizi turchi osservavano e valutavano, e la gestione di amministratore di al Jolani appariva la più efficace rispetto ai jihadisti foraggiati da Ankara. Chi oggi, pur a mezza bocca, ne parla evidenzia un gioco delle parti: lo stesso al Jolani dalla sua Idlib mostrava segni d’intesa verso chi fino al quel momento gli preferiva altri soggetti. Nel suo piano che, possiamo ipotizzare, mirasse a un posto di totale rappresentanza della ribellione anti Asad, Jolani cercava d’avvantaggiarsi strizzando l’occhio ad Ankara com’essa studiava la convenienza cambiando in corsa le sue preferenze. Non è dato sapere se lo sdoganamento del leader di HTS sia partito dalla mente che gestiva per Ankara il dossier siriano, Hakan Fidan. Certo è che quando quest’ultimo è stato proposto dal suo mentore al ministero degli Esteri (il 2 giugno 2023) il successo dei ribelli non era scontato, ma la fisionomia del conflitto era segnata dal locale disimpegno russo che da sedici mesi concentravano sul fronte ucraino ogni armamento di terra e d’aria. Probabilmente la scelta fra Turchia e gruppo Jolani è avvenuta in contemporanea e ognuna delle parti ha valutato vantaggi e bontà del rapporto. Detto col senno del poi il jihadista trasformato in traghettatore del futuro di Damasco sta piacendo a un pezzo del panorama diplomatico che osserva quel cuore squassato del Medioriente ch’era diventata la Siria. E pure chi come l’Unione Europea sta da anni concentrando attenzione e impegno bellico-economico sul versante ucraino, non disdegna prossime commesse di ricostruzione magari varando joint-venture con aziende turche. L’unico irritato è Israele perché si trova la Turchia a contatto di gomito, tantoché ha provato a riportare l’instabilità sul territorio siriano ampliando le sue occupazioni oltre il Golan, foraggiando il malcontento fra la minoranza drusa; quella alawita, pur scontenta del nuovo corso, è refrattaria a “protezioni” sioniste. 

 

Eppure fra una geopolitica applicata agli interessi regionali e i sottili percorsi ideologici che caratterizzavano la galassia del fondamentalismo islamico che per anni ha combattuto, s’è alleata e poi s’è divisa nel gran caos dei vari campi di battaglia siriani, il gioco più variegato, rischioso, azzardato l’ha condotto lo Stato turco. Oggi il suo ruolo politico internazionale appare ulteriormente rafforzato, ovunque. Davanti ai risolutori-impostori come Trump e Putin gestori di conflitti e tregue all’apparenza impossibili, quindi nei territori piegati e piagati da una scia sanguinaria com’era la Siria dove Ankara s’è liberata di due avversari: il regime degli Asad e l’esperienza del Rojava kurdo. E ancora attraverso la rottura del blocco jihadista che il governo Erdoğan ha utilizzato e selezionato. Scegliendo e promuovendo il “Signor metamorfosi” gestisce il presente in maniera più scaltra e intrigante rispetto a quanto altri contendenti regionali (Iran, Arabia Saudita, Qatar) hanno finora fatto tramite soggettive campagne ideologico-militanti o consumistico-attrattive. E’ una giostra nella quale il navigato premier, presidente e neo sultano turco è salito volentieri convinto di poterla controllare a suo piacimento e divertimento. Gli sviluppi gli stanno dando ragione, visto che gli intoppi maggiori alla sua gestione politica li aveva riscontrati tutti all’interno col susseguirsi di crisi finanziaria e un’inflazione stellare parzialmente rientrate per impulso della produzione bellica immessa sul mercato mondiale (è il segno dei tempi e l’industria tecnologica turca s’è adeguata) e l’attività di servizi in cui il turismo brilla. Mentre il pericolo di un’opposizione montante è stato disinnescato con una carezza riservata ai kurdi che archiviano la lotta armata del Pkk in cambio d’un riconoscimento delle proprie amministrazioni nel nord-est anatolico. E il pugno di ferro della repressione giudiziaria scagliato sugli esponenti del partito repubblicano, impossibilitati come accade a İmamoğlu a riscendere nell’agone elettorale. Quest’aria da micro impero basata su controllo, alleanze ed egemonia anziché conquiste dirette e dominio sembra pagare e appagare pure i soci che Ankara ritiene sudditi.

venerdì 5 dicembre 2025

Marwan deve morire

 


Denti rotti, costole pure, un pezzo d’orecchio mozzato. E’ l’ennesimo pestaggio, la famiglia ne ha contati cinque in due anni, subìto da Marwan Barghouti nel luogo di detenzione a opera delle guardie carcerarie d’Israele. Ordini che vengono dall’alto, magari dallo stesso ministro della Sicurezza Ben Gvir che nell’agosto scorso gli si è parato davanti per minacciarlo, offenderlo, umiliarlo. Nella foto diffusa in quell’occasione dalle stesse autorità israeliane, il sessantaseienne leader delle cellule Tanzim di Fatah, attive durante la seconda Intifada e membro del Consiglio legislativo palestinese, era apparso invecchiato, emaciato, fortemente logorato da una detenzione che dura dall’aprile 2002 per cinque ergastoli inflittigli su omicidi peraltro mai provati. Il ministro col piglio del boia nel corso della “visita” al prigioniero aveva parlato di annientamento da praticare nei confronti suoi e di altri detenuti politici. E’ stato Arab Barghouti, uno dei figli, a offrire ai media la notizia degli agghiaccianti particolari delle lesioni inflitte al genitore, gli erano state riferite da un altro prigioniero scarcerato di recente. Mentre un possibile rilascio di Marwan, discusso nelle trattative dei rappresentanti di Egitto, Qatar, Hamas con la delegazione israeliana, ha visto quest’ultima sempre contraria sebbene abbia gradualmente ricevuto e concluso il recupero di ostaggi vivi e di cadaveri dei deceduti nell’incursione del 7 ottobre 2023. Su Marwan Barghouti non grava solo il veto d’Israele che continua a ritenerlo uno dei palestinesi più pericolosi sul piano politico, vista la popolarità totale e trasversale di cui gode capace di spezzare la dicotomia fra le due fazioni storiche della rappresentanza palestinese in Cisgiordania e pure a Gaza. Il suo rilascio romperebbe i piani della componente collaborazionista di Fatah incarnata da Abu Mazen e dai suoi amministratori, propensa da tempo a seguire le indicazioni di qualsiasi maggioranza prevalga nella Knesset. L’esclusione dalle liste di scarcerazione del leader dei Tanzim veniva auspicata dalla stessa Autorità Nazionale Palestinese che continua a vederlo come un avversario alla propria sudditanza alle volontà israeliane, anche ora che lo Stato ebraico sceglie di praticare il genocidio diretto o strisciante dei gazawi e dei fratelli di Cisgiordania. E’ la coerenza alla causa e al diritto di resistenza sotto ogni forma anche armata, è l’integrità morale, l’impegno esclusivo verso il popolo che i burocrati di Fatah disdegnano nella persona di Barghouti. E’ la coscienza libera che una dirigenza opportunista, meschina, corrotta non riesce a sopportare. Così Marwan pur in cima alla lista degli oltre diecimila prigionieri palestinesi, e sono certamente di più come le vittime della Striscia perché Israele cela e svia informazioni su fermi e arresti, non deve uscire di galera. Anzi è auspicabile che lì trovi la fine dei suoi giorni. La “democrazia” di Tel Aviv fa il possibile per accelerare i tempi non di rilascio bensì d’una soluzione finale per questo detenuto. Non spiacerebbe anche ad altri.

venerdì 28 novembre 2025

Medioriente profanato

 


Ha voglia il papa americano a lanciare il suo primo viaggio apostolico in Medioriente, missione di pace dice lui stesso “nonostante le differenze, nonostante le fedi”.  I due Paesi dove riposiziona la diplomazia vaticana - Turchia e Libano - hanno nel credo islamico il seguito maggiore. Ma le antiche tracce del cristianesimo, poi diviso già nell’antica Nicea e nei concili seguenti, vantano in quei luoghi radici che il pontefice cattolico vuole rinverdire, proponendo dialoghi interreligiosi e possibili tavoli diplomatici per la cessazione dei conflitti. Eppure l’incontro coi locali capi di Stato, in questi giorni il turco Erdoğan, da domenica il meno potente libanese Aoun, restano vaghi e lui ampiamente impotente davanti a chi continua a devastare la regione: il sionismo israeliano e il fondamentalismo ebraico. Nei giorni precedenti al viaggio di Leone l’Idf ha continuato ad assassinare e devastare. Proprio nella capitale libanese, nel quartiere sciita di Haret Hreik, dove il nemico individuato era Ali Tatatabai miliziano di lungo corso di Hezbollah, il missile destinato alla sua fine ha ucciso anche civili. Come sempre fa Israele. Lo scorso anno il Libano fu devastato da uno stillicidio di omicidi mirati. Ma per eliminare noti esponenti del Partito di Dio: Fuad Shukr prima, quindi Hassan Samir, Nabil Kawak, Muhammad Ismail, Hussein Ismail, Muhammad Qabisi, Ibrahim Sharaf Ad-Din, Hussein Hany, Ali Karaki, Muhammed Hussein Srour, l’aviazione di Tel Aviv ha triturato le vite di settecento abitanti. Quando è stato disintegrato il leader religioso sciita Hassan Nasrallah, colpito sottoterra nel quartier generale del gruppo mentre era in corso un incontro di vertice, il super ordigno proveniente dagli arsenali statunitensi capace di radere al suolo l’edificio e perforare il cemento del bunker, s’è portato via centinaia di persone. Tale pratica, con ordigni più o meno sofisticati, prosegue.

 

Mentre taluni potenti blaterano di pace e futuro dietro al piano speculativo di Trump per Gaza, mentre l’uomo in bianco dei cattolici nell’anno dell’affollato Giubileo esce dalle stanze vaticane e ripropone l’eco pacifista del predecessore, non solo la realtà è ancorata a un frustrante immobilismo, ma in queste ore nel sud del Libano, a Jenin e Tubas in Cisgiordania, a Beit Jinn in territorio siriano permane la criminale linea d’Israele fatta d’assassinio e occupazione. Proseguono le incursioni di Tsahal e i suoi omicidi extragiudiziali di presunti nemici. Quando questi nemici hanno tre o cinque anni il livello di devastazione d’ogni umana sopportazione non è solo calpestato, è trasformato in progetto sanguinario. Questa è la linea d’Israele in faccia alle anime belle dei cantori (la voce dei media ne è piena) che danno sponda alla sua presunta distruzione, alla “necessità di difesa e sicurezza”, ai diritti del popolo ebraico che vuol vivere in pace, un banale ossimoro per uno Stato nato dal terrorismo pregresso dei propri fondatori. Il Libano dove il padre santo mette piede domani è stato devastato da una guerra civile, in cui per tutti gli anni Ottanta i cristiano-maroniti hanno praticato stragi collaborando con le truppe occupanti dell’Idf. La più infame resta Sabra e Shatila, ex periferia sud della capitale da tempo integrata nel pur travagliato abitato. Un campo palestinese tuttora esistente come la condizione di quelle famiglie, rifugiate perenni. Lì i mercenari di due fazioni cristiano-maronite, i falangisti di Hobeika e i miliziani di Haddad, a metà settembre 1982 sgozzarono e passarono per le armi tremila fra vecchi, donne e bambini d’un territorio rimasto senza difesa per il forzato ritiro dei combattenti dell’Olp. Tutto con la compiacenza e la copertura dell’esercito israeliano di Ariel Sharon. Perché serve ricordare il passato? Perché l’Israele squarciata dall’assalto del 7 ottobre non guarda mai la scia di sangue che ha seminato dall’epoca della sua creazione e prim’ancora. Alla stregua della stessa geopolitica intenta a discutere del futuro davanti a un presente identico al passato e più infarcito d’inenarrabili crimini. Dica il padre santo se le fedi possono benedire questo buio dell’anima.

martedì 25 novembre 2025

Torna la morte dal cielo

 


La quiete dopo vent’anni di tempesta che aveva caratterizzato il primo biennio del secondo Emirato afghano, fino più o meno all’inverno 2023, ha definitivamente ceduto il passo a nuovi venti di guerra. Per chi abita sul confine orientale afghano e occidentale pakistano riappaiono tensione e morte. Stanotte, violando un cessate il fuoco stabilito nelle scorse settimane grazie alla mediazione di Qatar e Turchia, l’aviazione pakistana ha bombardato il distretto di Gurbuz, uccidendo nove bambini in un’abitazione di Khost. Squassate dal cielo anche altre abitazioni nelle province di Kunar e Paktika che registrano feriti. La risposta del portavoce talebano da Kabul è stata perentoria: dopo l’ennesima ostilità contro i civili le forze dell’Emirato reagiranno. Reagiranno come? In un’ottica militare la partita è improponibile. I talebani afghani non hanno né aviazione né un esercito degno di questo nome. Negli anni della resistenza anti Nato la loro forza s’è basata sulla guerriglia locale e urbana e sull’infiltrazione nell’esercito che gli Stati Uniti avevano predisposto durante i governi collaborazionisti di Karzai e Ghani. Opporsi a un gigante militare come il Pakistan risulta difficile anche alla ciclopica India, figurarsi cosa pensano le stellette d’Islamabad dei vicini in turbante. Poco meno che profughi, come i milioni ammassati nell’area di Peshawar. Però quei vicini, quegli ex mujaheddin risultano formidabili combattenti territoriali e in tutto il periodo della guerra civile afghana negli anni Novanta e del successivo ventennio di occupazione Nato, i governi e le Forze armate pakistane provavano a influenzare il disastrato territorio di confine senza riuscirci, al di là di qualche attentato magari organizzato dall’agenzia Inter Services Intelligence che tornava comodo agli stessi taliban. 

 

In genere è accaduto il contrario: talune zone pakistane abitate da gruppi tribali che si rapportano ai talebani hanno rappresentato porti franchi e nascondigli per miliziani del jihad. Questa è l’accusa che apertamente da più d’un anno il governo guidato da Sharif in connubio col super generale Munir lancia all’Emirato: voi ospitate e proteggete quei nuclei fondamentalisti (Tehreek-i Taliban, Jamat-ul Ahrar) che seminano autobombe nelle metropoli pakistane. L’ultima esplosione è di tre settimane fa a Islamabad e voi siete corresponsabili. Un’accusa non accertata risponde Kabul, sebbene ciascuna parte sa che quando si parla dei confini citati non c’è limitazione che tenga, perché è la stessa popolazione frontaliera ad attraversarli in continuazione per i propri traffici mercantili. E’ stato provato che in varie circostanze i nuclei di attentatori camuffano le trasmigrazioni bombarole con sembianze mercantili. Per la politica interna di Islamabad, recentemente suffragata da una svolta ancora più favorevole alle Forze Armate attraverso una modifica costituzionale, è in gioco la credibilità del proprio potere. Visto che gli agguati dei TTP si ripetono con frequenza, fra domenica e lunedì è stata attaccata una caserma di polizia a Peshawar.  Così avere un nemico esterno su cui convogliare l’adesione patriottica della propria gente è un salvagente per la leadership del partito di governo Lega Musulmana-N. Meno favorevole diventa la linea degli avversari diffusi e crearsene sui confini orientali (India) e occidentali (Afghanistan) come sta facendo Shahbaz Sharif diventa una tattica nient’affatto vantaggiosa. Gli stessi rappresentanti della riconciliazione locale sono preoccupati: l’afghano-statunitense Khalilzad che traghettò il passaggio all’attuale regime di Kabul ha dichiarato che non è possibile tornare a uccidere i civili in un territorio martoriato da cinquant’anni di conflitti.